Marxismo

L’indipendenza USA e la prospettiva socialista

Il 4 luglio 1776 le 13 colonie americane della Gran Bretagna (gli antenati degli Usa) alla guida di George Washington sconfiggevano militarmente gli inglesi e proclamavano la loro indipendenza. Nascevano così gli Stati Uniti d’America. L’indipendenza Usa rappresentò un passo in avanti per il miglioramento dell’allora società; il ridimensionamento britannico aveva avuto un buon impatto anche sui ceti meno agiati e poteva celare un significato progressista, come in parte progressista rappresentò la vittoria nordista, successivamente, contro i sudisti.

La congiura secessionista, organizzata, patrocinata e sostenuta, fin da molto tempo prima del suo scoppio, dal governo Buchanan, ha dato al Sud un vantaggio che era la sola cosa con la quale poteva sperare di raggiungere il suo scopo. Per il Sud – compromesso dalla sua popolazione di schiavi e da un elemento fortemente unionista fra gli stessi bianchi, con un numero di uomini liberi di due terzi inferiore al Nord, ma più pronto all’attacco, grazie alla moltitudine di avventurieri e sfaccendati cui dà ricetto – tutto dipendeva da un’offensiva rapida, audace, anche temeraria. (MARX)

Le questioni indipendenza ed emancipazione dalla schiavitù dovevano essere sostenute perché progressive e progressiste nella proiezione di diritti nuovi da acquisire, ma queste rivendicazioni non dovevano arrestarsi (come spesso è accaduto nel corso dei movimenti di massa) per la classe operaia: una volta incassato il successo democratico si doveva proseguire con le rivendicazioni socialiste.

Nel corso della storia non solo recente il mondo del lavoro si è visto annebbiare i suoi ideali da organizzazioni e partiti che hanno inneggiato a una sorta di “liberazione nazionale”, relegando i bisogni e le aspettative della classe operaia e dei poveri ad una fase successiva, “domani vedremo”. Una volta giunta l’emancipazione nazionale, la seconda fase, che doveva essere socialista, si sgretolava scientificamente e andava ad impattare con gli interessi della borghesia nazionale. Infatti, ciò che i nazionalisti vogliono è la gestione di uno Stato al servizio della borghesia dominante.

Così come a Cuba, dopo il glorioso processo rivoluzionario, Fidel Castro prima si appoggiò sul pensiero di Martí: «l’ideologia della nostra rivoluzione è molto chiara: non offriamo agli uomini soltanto libertà ma anche pane, non offriamo agli uomini solo pane, ma anche libertà… Noi non siamo né di destra né di sinistra, né di centro. Noi vogliamo andare oltre rispetto a destra e sinistra». Successivamente impedì le potenzialità internazionaliste del Popolo Cubano — potenzialità che avrebbero fatto dei Comites de defensa de la Revolucion dei veri e propri Soviet — barattando la democrazia sovietica con i buoni rapporti e l’alleanza con la burocrazia del Cremlino. Da questa politica si allontanò lo stesso Che Guevara pagando con la vita la sua scelta internazionalista, ucciso dall’esercito boliviano con l’aiuto dei rangers USA e lasciato al suo destino dal partito comunista, stalinista, boliviano. Castro e il suo governo non spinsero mai più per nuovi trionfi socialisti in America Latina, sostenendo la “coesistenza pacifica”, il patto dei burocrati russi con l’imperialismo e la compressione della rivoluzione operaia ceca nel 1968.

Gli USA e i suoi volgari attacchi all’unico paese, quello cubano, in America Latina ove sopravvivono seppur in via di dissoluzione forme operaie (da difendere con tutte le nostre forze) di organizzazione statale, nonostante la Costituzione del 2018 che inaugura la categoria giuridica del socialismo di mercato, prendendo atto delle prime forme di capitalismo di stato e miste presenti nella società cubana.

NON BISOGNA DIMENTICARE CHE IL FINE ULTIMO DEL POPOLO CUBANO E DELLA CLASSE OPERAIA È LA RIVOLUZIONE INTERNAZIONALE, QUESTA È LA SOLA SFIDA. LA GRANDE SFIDA È LOTTARE PER UNA NUOVA RIVOLUZIONE SOCIALISTA.

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