Interventi

Il Manifesto di Ventotene e il riformismo (seconda parte)

Giungiamo alla parte centrale del Manifesto di Ventotene, in cui gli autori iniziano a delineare principi, soggetti e tattica. Qui la differenza tra marxisti rivoluzionari e riformisti diverrà abbissale.  

La secondarietà della lotta di classe. L’assenza di demarcazione e i fronti popolari

Vediamo adesso svelarsi la natura di quell’errore – che consisteva nell’accomunare dittature proletarie e borghesi. Rossi e Spinelli avanzano, sminuendo la conditio sine qua non per una rivoluzione: la lotta di classe.

Il principio secondo il quale la lotta di classe è il termine cui van ridotti tutti i problemi politici, ha costituito la direttiva fondamentale specialmente degli operai delle fabbriche […] finché non erano in questione le istituzioni fondamentali; ma si converte in uno strumento di isolamento del proletariato, quando si imponga la necessità di trasformare l’intera organizzazione della società. Gli operai, educati classisticamente, non sanno allora vedere che le loro particolari rivendicazioni di classe […] senza curarsi del come connetterle con gli interessi degli altri ceti; oppure aspirano alla unilaterale dittatura della loro classe, per realizzare l’utopistica collettivizzazione di tutti gli strumenti materiali di produzione, indicata da una propaganda secolare come il rimedio sovrano di tutti i loro mali. Questa politica non riesce a far presa su nessun altro strato, fuorché sugli operai, i quali così privano le altre forze progressive del loro sostegno, o le lasciano cadere in balìa della reazione che abilmente le organizza per spezzare le reni allo stesso movimento proletario.

Basterebbe già questo per troncare ogni discorso. Se l’analisi era sbagliata, adesso che diviene confusa anche l’appartenenza di classe, non potrà che essere vaga la postura da assumere nell’epoca rivoluzionaria, e ambiguo sarà infatti il suo programma.

Prima di andare avanti, per dirla con Gramsci, ricordiamo che:

Scopriamo chi sarà dunque, a detta di Spinelli e Rossi, quel “soggetto” rivoluzionario che nell’epoca rivoluzionaria creerà le “istituzioni rivoluzionarie”:

Un vero movimento rivoluzionario dovrà sorgere da coloro che han saputo criticare le vecchie impostazioni politiche; dovrà saper collaborare con le forze democratiche, con quelle comuniste, e in genere con quanti cooperino alla disgregazione del totalitarismo; ma senza lasciarsi irretire dalla prassi politica di nessuna di esse.

È la svolta dei “fronti popolari”, cari alla socialdemocrazia e teorizzati dallo stalinismo a metà degli anni ’30, al VII Congresso dell’Internazionale Comunista. L’interesse della casta burocratica in URSS, la giustificazione dei suoi privilegi, costituiva la base materiale della svolta. L’utopia della lotta insieme agli “amici della pace” (socialdemocrazia e partiti borghesi liberali) contro il fascismo unita ad una possibile democrazia progressiva al di sopra delle classi, ne erano la traduzione teorica. Il tradimento della rivoluzione e la ricerca del campo borghese, dunque, il suo ultimo approdo. Lo stalinismo giungeva così alla collaborazione con la borghesia e al disarmo del movimento operaio di fronte alle organizzazioni fasciste.

Come osservava Trotsky, riguardo alla situazione in Francia:

Grande Stato vs Stati grandi                                                             

E finalmente ecco venir svelate quelle “istituzioni fondamentali” capaci di “trasformare l’intera organizzazione della società”. Seguiamo il ragionamento:

Il problema che in primo luogo va risolto e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell’Europa in stati nazionali sovrani. […] Tutti gli uomini ragionevoli riconoscono ormai che non si può mantenere un equilibrio di stati europei indipendenti […] È ormai dimostrata l’inutilità, anzi la dannosità di organismi sul tipo della Società delle Nazioni, che pretendeva di garantire un diritto internazionale senza una forza militare capace di imporre le sue decisioni, e rispettando la sovranità assoluta degli stati partecipanti. […] Insolubili sono diventati i molteplici problemi che avvelenano la vita internazionale del continente […] che troverebbe nella Federazione Europea la più semplice soluzione – come l’hanno trovata in passato i corrispondenti problemi degli staterelli entrati a far parte della più vasta unità nazionale avendo perso la loro acredine, col trasformarsi in problemi di rapporti fra le diverse provincie.

Quindi, nelle prime pagine, secondo gli autori: ogni popolo nello Stato creato per proprio conto trovava lo strumento per soddisfare nel modo migliore i suoi bisogni, indipendentemente da ogni intervento estraneo, con l’ideologia dell’indipendenza nazionale in veste di potente lievito di progresso. Si superavano così i meschini campanilismi, inglobati in una più vasta solidarietà contro l’oppressione degli stranieri dominatori.

In queste ultime righe, invece, viene dimostrata sia la dannosità degli stati indipendenti che l’inutilità di organismi sovranazionali come la SdN. Viene affermato che “il diritto internazionale, senza una forza militare, è incapace di imporre le sue decisioni”. Perché?  A leggerle il Manifesto, era incapace perché rispettoso della “sovranità assoluta” – prima osannata – degli “Stati partecipanti”.

La soluzione degli autori? L’Unione Europea: una “federazione” dove gli Stati nazionali (sull’orlo di crollare durante la guerra), perdendo la loro ostilità si sarebbero trasformati e accumunati – come in precedenza fatto dagli staterelli inglobatisi nelle varie unità nazionali. Insomma: prima non era andata bene, ma grazie a un’unione “più grande” (europea) e “forte” (con una forza militare) si sarebbe posto un argine ad un futuro (terzo) conflitto mondiale tra Stati.

Dopo pagine e pagine di giravolte, sembra si giunga alla soluzione:

[…] il nuovo organismo che sarà la creazione più grandiosa e più innovatrice sorta da secoli in Europa; per costituire un saldo stato federale, il quale disponga di una forza armata europea al posto degli eserciti nazionali; spezzi decisamente le autarchie economiche, spina dorsale dei regimi totalitari; abbia gli organi e i mezzi sufficienti per far eseguire nei singoli stati federali le sue deliberazioni dirette a mantenere un ordine comune, pur lasciando agli stati stessi l’autonomia che consenta una plastica articolazione e lo sviluppo di una vita politica secondo le peculiari caratteristiche dei vari popoli.

È tutto qui: un “saldo stato federale”, con un “forza armata europea” al posto degli eserciti nazionali, è sufficiente a far eseguire nei singoli stati federali le sue “deliberazioni dirette a mantenere un ordine comune.” Un “grande Stato” con “grandi decreti”. Questa è la rivoluzione del Manifesto. Nient’altro! Senza alcun cambiamento dei rapporti di proprietà! Bastava, sembra di capire, un semplice cambio sovrastrutturale essendo questione solo di dimensioni nel quale far confluire le spinte nazionali. Spinte che, stavolta, andavano appianate e non appagate!  

Ancora qualche considerazione in merito.

Nel Manifesto non viene minimamente ipotizzata la possibilità che uno Stato (soprattutto se imperialista), dopo aver ceduto la propria sovranità all’UE al pari di un altro Stato – che il giorno prima era considerato un proprio sottomesso – si potesse riarmare in sordina per riemergere (Germania docet), ricominciando a far girare la giostra. Oggi è noto che le ipocrisie della Società delle Nazioni, dell’ONU così come dell’UE non bastano a mascherare il fatto che gli Stati imperialisti mantengano sotto il proprio giogo colonie, semi-colonie e si contendano zone di influenza, imponendo le proprie politiche ben al di là dei fatidici Statuti sovranazionali.

Per il Manifesto, invece, sarebbe stata sufficiente instaurare una forza maggiore (l’esercito europeo) per far rispettare finalmente quei princìpi (vedremo quali), gettando le basi per un futuro in cui i popoli avrebbero arginato ogni possibile riemergere degli animal instincts: quei germi dell’imperialismo capitalista che avevano infettato gli Stati nazionali. Un po’ come ribadiva la nota pubblicità: “Non ci vuole un pennello grande, ma un grande pennello…”

Il socialismo a targhe alterne: dall’incidente di percorso alla soluzione di compromesso

Come promesso, giungiamo a una sequela di estratti dove riemerge l’universo mondo e il suo contrario: l’altalenante e talvolta inesistente appartenenza di classe, il suo programma conseguentemente monco, la scontata realizzazione di una fantomatica rivoluzione socialista.

 “Un’Europa libera e unita è premessa necessaria del potenziamento della civiltà moderna, di cui l’era totalitaria rappresenta un arresto. […] La rivoluzione europea, per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere socialista, cioè dovrà proporsi l’emancipazione delle classi lavoratrici e la realizzazione per esse di condizioni più umane di vita. La bussola di orientamento per i provvedimenti da prendere in tale direzione non può essere però il principio puramente dottrinario secondo il quale la proprietà privata dei mezzi materiali di produzione deve essere in linea di principio abolita, quando non se ne possa proprio fare a meno.

“La statizzazione generale dell’economia è stata la prima forma utopistica in cui le classi operaie si sono rappresentate la loro liberazione dal giogo capitalista; ma, una volta realizzata in pieno, non porta allo scopo sognato, bensì alla costituzione di un regime in cui tutta la popolazione è asservita alla ristretta classe dei burocrati gestori dell’economia. Il principio veramente fondamentale del socialismo, e di cui quello della collettivizzazione generale non è stato che una affrettata ed erronea deduzione, è quello secondo il quale le forze economiche non debbono dominare gli uomini… […] La proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio.

Una cosa non può sfuggire a chiunque, e cioè che “La rivoluzione europea… dovrà essere socialista” e insieme  “La bussola di orientamento per i provvedimenti da prendere in tale direzione non può essere però il principio puramente dottrinario secondo il quale la proprietà privata dei mezzi materiali di produzione deve essere in linea di principio abolita”.

Un socialismo senza l’abolizione della proprietà privata! Su questo ci torniamo prima delle conclusioni, perché è un punto centrale.

Proseguendo, il Manifesto elenca quattro punti essenziali per specificare la direttiva sull’abolizione più o meno accentuata della proprietà privata.

Il primo punto chiarisce che “non si possono più lasciare ai privati le imprese che, svolgendo un’attività necessariamente monopolistica, sono in condizioni di sfruttare i consumatori”. Che li sfruttassero a monte in quanto lavoratori, e non solo a valle come consumatori, evidentemente non era condizione sufficiente per un esproprio. Stessa sorte tocca a “imprese che per la grandezza dei capitali investiti e il numero degli operai occupati, o per l’importanza del settore che dominano, possono ricattare gli organi dello stato, imponendo la politica per loro più vantaggiosa”. Si accenna poi alla “riforma agraria, passando la terra a chi la coltiva”, e “industriale, che estenda la proprietà dei lavoratori nei settori non statizzati, con le gestioni cooperative, l’azionariato operaio ecc.

Continua col sostegno ai giovani, indicando in particolare che la scuola pubblica“dovrà preparare in ogni branca di studi, per l’avviamento ai diversi mestieri e alle diverse attività liberali e scientifiche, un numero di individui corrispondente alla domanda del mercato, in modo che le rimunerazioni medie risultino poi press’a poco eguali per tutte le categorie professionali.

Orientamento della scuola alla domanda di mercato: bella trovata. Figuriamoci se dovesse essere orientata al livello dei bisogni della società, tenuto conto dell’inclinazione e della passione individuale. Ma va! E il motivo è emblematico: uguagliare domanda e offerta così da ottenere “remunerazioni medie simili” per le diverse professioni. Quindi, secondo Rossi e Spinelli, il potenziamento  della civiltà moderna si ottiene orientando il proprio futuro (i giovani) ad un incerto e instabile punto di equilibrio “E”: l’intersezione tra due curve, con la benedizione del mercato! Quell’equità scaturita dal mercato che tuttora sopravvive e domina, tra l’altro. Peccato che la domanda non corrisponda alla necessità, per cui se non c’è domanda di un bene o servizio allora non si stanziano i fondi e non si fa ricerca. Il “sacro mercato”, si sa, ha le sue di priorità: “Pagare moneta, vedere Cammello!”

L’ultimo punto è sul rapporto lavoratori-sindacato:

La liberazione delle classi lavoratrici può aver luogo solo realizzando le condizioni accennate nei punti precedenti: non lasciandole ricadere in balìa della politica economica dei sindacati monopolistici, che trasportano semplicemente nel campo operaio i metodi sopraffattori caratteristici anzitutto del grande capitale. I lavoratori debbono tornare ad essere liberi di scegliere i fiduciari per trattare collettivamente le condizioni cui intendono prestare la loro opera…

Ora, sulla burocrazia sindacale e sul suo ruolo controrivoluzionario, svolto prima sotto controllo predominante del PSI e dai primi anni ‘40 sotto quello decisivo del PcdI (poi PCI), si possono fare infinite e comprensive critiche. Ma che qualche nazionalizzazione qua e là, un’ottimistica riforma agraria, sotto l’ombrello di un’Europa federale – ma pur sempre capitalistica – siano la precondizione per la liberazione della classe lavoratrice è un’illusione, o meglio, un’utopia: la creazione di un capitalismo che non abbia i connotati del capitalismo.

L’assenza di direzione e l’utopia del bene comune: la rivoluzione caduta dal cielo

Facendo fare alla giostra l’ennesimo giro su se stessa, gli autori sperano stavolta sia diverso, perché si darà “alla vita politica una consolidata impronta di libertà, impregnata di un forte senso di solidarietà sociale. Su queste basi, le libertà politiche potranno veramente avere un contenuto concreto, e non solo formale, per tutti, in quanto la massa dei cittadini avrà una indipendenza ed una conoscenza sufficiente per esercitare un continuo ed efficace controllo sulla classe governante.

Ancora questo concetto del “cittadino”, astratto ma sempre presente nella fantomatica democrazia borghese. È lo stesso cittadino che, come spiegava Marx:

La direzione della società, nella crisi rivoluzionaria del dopoguerra che gli autori intravedono, spetterà al partito rivoluzionario. Bene. Ma cosa intendono con partito rivoluzionario? Da chi è formato?

Il partito rivoluzionario non può essere dilettantescamente improvvisato nel momento decisivo, ma deve sin da ora cominciare a formarsi almeno nel suo atteggiamento politico centrale, nei suoi quadri generali e nelle prime direttive d’azione. Esso non deve rappresentare una massa eterogenea di tendenze, riunite solo negativamente e transitoriamente, cioè per il loro passato antifascista e nella semplice attesa della caduta del regime totalitario, pronte a disperdersi ciascuna per la sua strada […] Deve penetrare con la sua propaganda metodica ovunque vi siano degli oppressi dell’attuale regime […] esso deve rivolgere la sua operosità in primissimo luogo a quegli ambienti che sono più importanti come centro di diffusione di idee e come centro di reclutamento di uomini combattivi; anzitutto verso i due gruppi sociali più sensibili nella situazione odierna, e decisivi in quella di domani; vale a dire la classe operaia e i ceti intellettuali. […] Qualsiasi movimento che fallisca nel compito di alleanza di queste forze, è condannato alla sterilità; poiché, se movimento di soli intellettuali, sarà privo della forza di massa necessaria per travolgere le resistenze reazionarie, sarà diffidente e diffidato rispetto alla classe operaia; […] Se poggerà solo sul proletariato, sarà privo di quella chiarezza di pensiero che non può venire che dagli intellettuali, e che è necessaria per ben distinguere i nuovi compiti e le nuove vie: rimarrà prigioniero del vecchio classismo, vedrà nemici da per tutto, e sdrucciolerà sulla dottrinaria soluzione comunista.

Un partito formato, quindi, da classe operaia e ceti intellettuali. Sorge un dubbio circa la composizione e soprattutto l’estrazione di questi intellettuali. Sono organici alla classe operaia?  Soprattutto: se sono organici, perché la “chiarezza del pensiero” di questi ha tra i suoi “nuovi compiti” quello di condurre fuori dal “vecchio classismo” la classe operaia?? Restiamo dunque tra l’incerto e l’enigmatico, senza una chiara specificazione di cosa sia questo partito e da chi sia composto. Oppure, viceversa, è già tutto abbastanza chiaro… Più avanti, ecco l’altro passaggio citato dalla Meloni:

Durante la crisi rivoluzionaria, spetta a questo movimento organizzare e dirigere le forze progressiste […] Esso attinge la visione e la sicurezza di quel che va fatto non da una preventiva consacrazione da parte dell’ancora inesistente volontà popolare, ma dalla coscienza di rappresentare le esigenze profonde della società moderna. Dà in tal modo le prime direttive del nuovo ordine, la prima disciplina sociale alle informi masse. Attraverso questa dittatura del partito rivoluzionario si forma il nuovo stato, e intorno ad esso la nuova vera democrazia.”

La conclusione ideale a questo punto sarebbe: “E vissero felici e contenti…” Ma non è andata così. Il punto fondamentale è che non poteva andare diversamente. Non è possibile alcuna “nuova-vera-democrazia” senza prima cambiare i rapporti di proprietà.


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