Nel 1971, in Siria, salì al potere Hafiz al-Assad, generale dell’aviazione militare, nonché alto esponente ba’thista. Hafiz al-Assad divenne il padre-padrone del paese sino alla sua morte nel 2000. Egli impose ed impresse un regime autoritario monopartitico che strizzò l’occhio all’Unione Sovietica prima e alla Russia capitalistica dopo, un regime politico particolarmente avverso alla minoranza curda stanziata nella parte settentrionale del paese. Un sistema, oltretutto, poco digerito dalla popolazione sunnita siriana, appartenendo Assad alla corrente sciita degli alawiti, corrente che negli anni ottanta aveva avuto screzi con i Fratelli Musulmani. Questi attriti fecero versare molto sangue in Siria. Attentati terroristici e repressioni governative si alternarono sino al febbraio 1982, data del massacro di Hama, in cui migliaia di oppositori al regime di Assad persero la vita.
Nel giugno-luglio 2000, ad Hafiz al-Assad succede il figlio Bashar, al potere fino al mese scorso. Assad utilizza le stesse modalità governative del padre: repressione e autoritarismo. Salito al potere molto giovane, a circa 35 anni, il nuovo leader siriano appena insediato provò a promulgare timide riforme, forse per ingraziarsi la popolazione siriana, ma tali minime riforme rimasero solo sulla carta senza mai concretizzarsi. Assad figlio, quindi, continuò a seguire sempre più le orme politiche del padre, manifestando una netta avversità agli Stati Uniti, specie in occasione dell’invasione dell’Iraq del 2003.
In opposizione al regime si creò una ampio fronte, il quale, a partire dal febbraio-marzo del 2011, scelse la piazza come linea politica e promosse molte manifestazioni popolari. Proteste che chiedevano maggiore libertà, democrazia e riforme democratiche (anche in ambito istituzionale).
La lotta al regime generò un effetto domino e così, sull’onda della «primavera araba», venivano scossi con diverse gradazioni anche i regimi di Tunisia, Egitto e Marocco. La Libia, gestita da Gheddafi, viveva un travaglio ancora più intenso. Gheddafi regnava dall’alto, vietando i partiti politici, con un sistema retto da accordi tra varie tribù, attraverso una miscela di comitati di base e popolari al posto delle assemblee locali e del parlamento. Alla sua implosione, si sommò la completa ostilità della comunità internazionale, in primis quella degli USA, le prime ondate di rivolte di massa nel Magreb, seguite poi dalle manifestazioni in Yemen, in Iraq, in Giordania, in Kuwait, in Bahrein. Sembrava essere suonata la campana a morto per i regimi dittatoriali.
In Siria, comunque, gli avvenimenti presero un’altra piega. Il governo di Bashar Al-Assad, infatti, non solo riuscì a resistere – sino ad oggi – ai suoi oppositori ma fece molto di più: organizzò la controffensiva e l’affondo, portando così allo scoppio della guerra civile. Sunniti e Sciiti riacutizzarono un conflitto mai realmente sopito, tutto segnato dalla presenza di organizzazioni islamiste di matrice terrorista.
LA GUERRA CIVILE
La rivoluzione siriana fu, almeno inizialmente, una rivoluzione popolare. Il fatto stesso che nacque nelle regioni meridionali, quelle più povere, lo prova a sufficienza. Verso la metà del marzo 2011, le proteste contro Al Assad si intensificarono (come nella città di Dar’a) e in poco tempo si propagarono in altre parti del paese. La reazione del regime non si fece attendere. Assad mise in campo l’esercito mietendo vittime su vittime.
In questo scenario più o meno conflittuale, le forze avversarie al regime (tra cui anche i Fratelli Musulmani e le forze regolari dell’esercito) non persero tempo, si organizzarono e formarono, con il sostegno del governo turco, un Consiglio nazionale siriano in esilio in Turchia. Lo scontro, oramai, non era più soltanto di piazza, più o meno violento, ma assunse realmente i connotati di un conflitto armato.
La situazione divenne ingestibile ma il suo punto di caduta più basso non era ancora stato toccato. Nel 2012, il gruppo sunnita di Fronte al-Nusra (Organizzazione per la liberazione del Levante) si inserì tra le forze di opposizione al regime attuando una politica terroristica fatta di attacchi suicidi che coinvolsero anche bersagli del regime stesso. Fu la degenerazione dell’opposizione, i cui metodi assunsero i caratteri più reazionari e deplorevoli. La rivoluzione siriana, nata su rivendicazioni progressiste come libertà e democrazia, lasciò il posto ad un’opposizione reazionaria teocratica. Al regime reazionario si oppose una forza altrettanto reazionaria e teocratica. Assad non temporeggiò e mise in campo le milizie shabiha, gruppi paramilitari e veri e propri macellai, che dal 2012 si sporcano le mani con numerosissimi massacri indiscriminati.
Sin dalle prime difficoltà del regime di Assad e per tutta la durata della guerra civile, la Turchia aveva sostenuto più o meno attivamente la resistenza anti-Assad di tutte le sfumature, ma si era anche impegnata nella lotta contro i Curdi stazionati in Siria, colpevoli, secondo il regime di Erdogan, di essere un’etnia affiliata al PKK, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, gruppo politico vagamente rosso, non tollerato quindi dalle istituzioni turche.
DENTRO IL CONFLITTO TURCO-SIRIANO
Nell’ottobre 2017, la Turchia cominciò a monitorare la situazione, entrando nella provincia di Idlib, all’epoca gestita dalle opposizioni anti-Assad, motivando il suo gesto col pericolo “curdo”. L’obiettivo di questa manovra di Erdogan, era quello di ampliare la propria influenza nella provincia di Idlib, bloccando sul nascere una possibile offensiva delle truppe fedeli ad Assad, le quali avrebbero potuto provocare un esodo di profughi verso il confine con la Turchia. Da allora la situazione è in continuo fermento, il bilancio della crisi si aggravò e continuò a peggiorare con decine di militari turchi uccisi dall’esercito siriano sostenuto da Mosca che svolse il ruolo di vero e proprio catalizzatore del conflitto, Erdogan non potendo rimanere con le mani in mano cercò di avanzare con l’artiglieria, infine, tutto venne aggravato dalla crisi dei migranti che logorò i confini tra Turchia e Grecia.
Furono circa 15.000 i rifugiati respinti dalla Grecia, solo nei primi giorni di marzo al confine con la Turchia. La tragedia umanitaria fu un dato di fatto, da quando Erdogan aprì la frontiera verso l’UE. Erdogan aveva sperato che, riversando decine di migliaia di migranti all’interno dei confini comunitari, potesse spingere l’Europa politica verso un suo sostegno attivo.
In tutto questo scenario, fatto di triangolazioni imperialiste tra Russia, Turchia e UE, la posizione degli USA rimase sotto traccia e legata ai propri interessi contingenti.
La politica della prima amministrazione Trump, per alcuni aspetti, ricalcava la politica “isolazionista”, come probabilmente sarà anche la seconda. In un primo tempo in un modo del tutto avventuroso, aveva dichiarato di voler ritirare circa 2000 soldati impiegati in Medio Oriente, proprio in Siria, con la motivazione di aver sconfitto definitivamente il califfato dell’ISIS. La parole di Trump non fecero breccia nei poteri forti e nell’intelligence statunitense, nonostante la sua politica rispecchiasse in pieno le promesse avanzate in campagna elettorale: vittoria sull’ISIS e ritiro delle truppe dal Medio Oriente. Per questo, la proposta di Trump, successivamente venne riplasmata. Sotto la pressione della difesa USA, Trump e passò da un ritiro immediato delle forze militari nelle zone di conflitto turco-siriano, ad una diluizione in accordo con le forze di Ankara, sempre più decisa e convinta da quella politica estera statunitense che le permetteva tutelare i sui confini dai presunti “terroristi” curdi. Anche questo risultato, tuttavia, venne raggiunto, così la situazione rimase sino ad oggi poco gestibile.
Ora, quello che sembrava una sorta di via libera degli USA per le operazioni turche nel Kurdistan siriano, fu solo apparenza. Anche questa volta Trump fu costretto a fare marcia indietro, ben sapendo che la completa sconfitta del popolo curdo, sarebbe stato un grosso problema per Washington. I curdi, infatti, sono pur sempre uno dei possibili e maggiori alleati in chiave anti Erdogan. Di conseguenza, la svolta non si fece attendere. È fu proprio lo stesso Trump a dichiarare che era pronto a “spazzare via l’economia della Turchia”, qualora questa avesse compiuto un atto considerato “off-limits”.
È possibile che il governo USA, abbia intravisto nei resistenti curdi oltre ad un prezioso alleato indiretto, anche un elemento decisivo nella sconfitta delle forze teocratiche dell’ISIS. Erdogan comunque, fu un vero e proprio trattore, continuando con la sua politica di pressione sull’Europa destabilizzando ulteriormente lo scenario, cercando di rimandare indietro almeno due milioni di profughi siriani dalla Turchia.
In questo quadro , l’Unione Europea, è rimasta ferma e al limite dell’ininfluenza politica. Seppur immediate siano state le condanne a parole da parte delle cancellerie europee, altrettanto rapida è stata la risposta di Erdogan: «Se proverete a definire questa operazione militare una “invasione”, apriremo le porte e vi manderemo 3,6 milioni di rifugiati». E che la UE non sia andata tanto più in là delle chiacchiere, lo dimostra il fatto che ha pagato oltre 6 miliardi di euro alla Turchia per trattenere i profughi siriani sul proprio territorio per non farli arrivare in Europa, piegandosi così al ricatto di Erdogan.
Oltre a nuovi flussi migratori, spaventava e lo fa ancora molto all’UE, il rischio di fuga di migliaia di combattenti del sedicente Stato Islamico, catturati negli ultimi anni dalle forze curde e ora più liberi di scorrazzare essendo la guerra civile in fase di risoluzione. Rischiando infatti, di rinvigorire l’islamismo militante politico o di risvegliarne le cellule dormienti sparse per il mondo.
I MARXISTI RIVOLUZIONARI NEL CONFLITTO
Esistono, almeno hanno avuto un qualche ruolo, alcune organizzazioni marxiste rivoluzionarie e/o centriste, presenti sia in Turchia che in Siria. IL SUQI, parlando di organizzazione centriste, è presente nei luoghi dei conflitti, così come sono presenti anche altre organizzazioni rivoluzionarie formate da compagni che sino a poco tempo fa facevano riferimento al CRQI e alla nostra UIT, ma la loro influenza è strettamente congelata e oppressa dai regimi di governo reazionari, quello Turco di Erdogan da un lato, quello siriano di Assad dall’altro. A ciò si aggiunga la composizione reazionaria della gran parte della resistenza ad Assad. In questa geografia politica particolarmente difficile, merita comunque una nota la “Brigata Lev Sedov”, almeno per il coraggio dimostrato.
La Brigata Lev Sedov, dal 2012 alla fine del 2016, ha combattuto insieme all’apposizione siriana, moderata e non. Ha combattuto contro Assad e contro l’ISIS. In più, ad Aleppo est, nella città assediata, si è mobilitata per una campagna politica rivoluzionaria spingendo i lavoratori ad occupare le fabbriche. In quel calderone che è la Siria distrutta da una guerra civile infinita, da aggressioni imperialiste e dall’avanzata dei regimi teocratici, questa proposta non assume solo il sapore del coraggio, ma anche quello del giusto romanticismo. Se solo il movimento comunista rivoluzionario avesse provato a costruire quello che mai come oggi sarebbe necessario, ovvero un’Internazionale davvero tale che svolgesse il suo ruolo, la Brigata Lev Sedov non sarebbe solo una semplice testimonianza.
Da marxisti rivoluzionari siamo stati dalla parte dei curdi e della loro lotta eroica, armi alla mano, contro le forze dell’ISIS e contro le aggressioni di Erdogan: l’unica forza che, non a caso, ha saputo sconfiggere i tagliagole in campo aperto sul fronte militare (Kobane). Siamo dalla parte di quelle forze della resistenza siriana (comitati popolari, brigate locali, eccetera), oggi molto limitate ma reali, che lottano per gli obiettivi democratici originari, della rivoluzione popolare. Siamo su ogni versante per lo sviluppo di un punto di vista classista indipendente in Medio Oriente, in funzione della prospettiva socialista. E, dunque, per la costruzione di partiti marxisti rivoluzionari basati su questo programma, cioè sul programma della rivoluzione permanente.
La classe operaia e il popolo sono vivaci, insofferenti e pronti come quando hanno rovesciato il sistema. Ma la classe operaia è pronta a cedere al fascino del marxismo rivoluzionario dopo i fallimenti dei partiti riformisti? Le organizzazioni politiche che falliscono vengono semplicemente cancellate insieme con i loro discorsi irrazionali, religiosi e nazionalisti? Ecco perché anche adesso in un nuova fase, porre le fondamenta per vero partito comunista non è solo un progetto ma una necessità.
COSA ACCADE OGGI IN SIRIA. CHI GUIDA QUESTA RIBELLIONE
Il 27 novembre del 2024 le milizie di Hay’at Thairì al Sham – organizzazione islamista di orientamento salafita che rompe con Al Qaida nel 2017 – hanno con estrema velocità promosso un’operazione militare che ha portato al crollo del regime di Bashar al-Assad che dopo le grandi ondate di protesta del 2011 aveva con l’ausilio di Russia, Iran e Hezbollah ripreso il controllo di gran parte del territorio siriano, ma il suo controllo era tanto ampio quanto fragile, il continuo sistema repressivo nei confronti della popolazioni ha fatto da detonatore, rivitalizzando tutte le resistenze anti Assad.
Il principale leader di questo movimento di massa che ha destituito Al Assad è Al-Jolani (capo di Hay’at Thairì al Sham) che nel 2003 a soli diciannove anni aveva sostenuto posizioni islamiste ortodosse, dopo la sua carcerazione avvenuta per mezzo degli statunitensi e aver trascorso del tempo a contatto con i futuri leader di Daesh nelle carceri, nel 2011 lo troviamo in Siria. Al-Jolani introietta che il fallimento dello Stato Islamico, quello iracheno, sia dovuto al suo approccio “settario” ed e apocalittico. La sua tattica si fonda nel mettere in stretta connessione le diverse comunità religiose ed etniche verso il regime. È certo che se la jihad può essere vincente lo sono ancora di più la lotta contro Bashar al-Assad, perno e collante di tutte le forme di dissenso, insomma per Al-Jolani la jihad deve limitarsi al perimetro territoriale della Siria, senza processi d’internazionalizzazione e in più prende le distanze dalle violenze indiscriminate.
Al-Jolani nel corso del tempo ha acquisito consensi è riuscito a legare le varie opposizione al tiranno Bashar al-Assad usando duttilità e flessibilità, chiaramente il regime reazionario è caduto perché si trovava in fase inesorabile di dissoluzione, un sistema avvitato dalla corruzione e dal malcontento ma nessun sistema crolla, specie così velocemente come quello di Bashar al-Assad senza un sostegno popolare delle masse, questo è un dato inopinabile, come inopinabile fu correlazione tra la crescita rapida a suo tempo dell’ISIS – aspetto essenziale del processo controrivoluzionario in Medio Oriente – e la compressione e oppressione dei grandi movimenti della Primavera araba del 2011 per conto dei sistemi autoritari.
La situazione in Siria oggi è in un fase delicatissima e in pieno divenire. Se l’attuale transizione rappresenta un aspetto ancora da definire aperto a vari sviluppi, gli eventi delle ultime settimane hanno evidenziato la situazione drammatica della popolazione che vede circa un milione di persone (di cui la metà bambini,) senza viveri, alloggi e la basilari forme di assistenza (coperte, medicinali ecc).
14 anni di conflitti e crisi economiche in Siria, hanno portato i bisogni umanitari a livelli estremi, tutto questo voluto ed ostinatamente perseguito da Bashar al-Assad. Siamo ancora più scioccati di come il “campismo” vetero stalinista mostri, per l’ennesima volta, la sua completa incapacità di distinguere tra progresso e forze imperialiste, sostenendo (e continuano a farlo, nonostante il suo dorato esilio nella Russia imperialista di Putin) Assad nella logica fintamente progressista e verticale (ricordiamo che i comunisti dividono per classi non per nazioni) come (oramai ex) come rappresentante di una nazione antimperialista, gli stalinisti e i rossobruni si aggrappano all’onnipresente Cia/Usa che abbia eterodiretto con l’ausilio d’Israele la rimozione di Assad (la stessa intelligence che non ha battuto ciglio quando un troglodita fan di QAnon vestito da Flintstones ha occupato il parlamento statunitense), dimenticando che il regime di Assad non ha mai mosso un dito contro la potenzia sionista.
Chiaramente siamo consci di quello che rappresenta Al-Jolani, siamo preoccupati per il genere femminile e per la popolazione curda, siamo consapevoli che questo nuovo assetto geopolitico rappresenti in primis una sconfitta dell’imperialismo russo, una chance per l’imperialismo occidentale ma soprattutto una vittoria della Turchia e del suo alleato Qatar (che da sempre foraggiano i fratelli musulmani e non solo in chiave anti Assad), soprattutto siamo assolutamente cauti nella valutazioni di questa nuova fase.
Al-Jolani è principalmente, almeno in questa fase, un abile politico. Sta cercando di presentarsi e lo fa anche nelle forme, interviste in giacca e cravatta, come un leader unitario e rispettoso delle minoranze religiose, sostenitore di un governo aperto (non si sa sino a che punto). La velocità con cui si sta presentando come soggetto politicamente presentabile è la stessa, in modo inversamente proporzionale, con cui ha dismesso i panni del combattente fanatico islamista. Ciò rende il tutto complesso e poco decifrabile.
Non escludiamo, dunque, una possibile involuzione (rispetto alla dichiarazione di oggi di Al-Jolani) o una repentina svolta reazionaria. Al-Jolani ha goduto di un grande movimento di massa che ha portato alla caduta di Assad, è stato sostenuto da gran parte della popolazione resa esamine del vecchio regime sanguinario, siamo in una fase di transizione che ha possibili declinazioni, il nostro compito, quelli dei marxisti rivoluzionari è di essere chiari e realisti in assenza di un Partito sano Comunista (le organizzazioni marxiste rivoluzionarie occidentali sono molto più concentrate a mascherare fagocitazioni in internazionale frazione spacciandole per operazioni di raggruppamento il cui unico collante, errato, è la discriminante formale ideologica oppure sono galvanizzati da atti di auto glorificazione) è quello di promuovere unitariamente e sostenere l’assemblea costituente come parola d’ordine. Dobbiamo fare di tutto per allargare il processo rivoluzionario.
FONTI
https://www.fanpage.it/esteri/perche-la-turchia-invade-la-siria-un-affare-da-27-miliardi-di-dollari
https://aulalettere.scuola.zanichelli.it/storia-di-oggi/la-crisi-siriana
https://www.ilpost.it/2020/02/06/russia-turchia-litigano-siria
https://www.lacittafutura.it/cultura/lenin-e-l-arte-dell-insurrezione
https://www.affarinternazionali.it/miti-e-realta-di-hayat-tahrir-al-sham-hts
Liberi oltre le illusione “Dietro la caduta di Assad”
F. Pichon, Siria: perché l’Occidente sbaglia? Saggio sul conflitto che insanguina il Medio Oriente