La questione di genere nei test di Marx non è ben definita e si concentra prevalentemente nella critica dell’istituzione familiare. Se osserviamo gli scritti giovanili si Marx come la Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, i Manoscritti economico-filosofici del 1844, all’Ideologia tedesca e al Manifesto del Partito Comunista del 1848 la destrutturazione della famiglia borghese normo-costituita è un punto toccato più volte. Naturalmente, le posizioni di Marx sulla famiglia sono anche in modo implicito una critica al patriarcato, vero e proprio architrave della famiglia.
Tutt’oggi viviamo in una società profondamente patriarcale, governata da reazionari come Salvini e Meloni, dove accendere o mantenere alto il tema sulla questione di genere e il suo relativo approccio è un dovere. Pensiamo ai femminicidi che rappresentano una parte preponderante degli omicidi compiuti sulle donne, con la peculiarità della loro maturazione all’interno del nucleo familiare o di relazioni tossiche.
Ora, qualcosa in termini di divulgazione è stato fatto nel recente passato, quando furono resi pubblici i primi dati sul femminicidio. Si capì subito che la situazione era (ed è) drammatica: secondo il rapporto Onu, 64.000 donne e ragazze ogni anno vengono uccise in tutto il mondo. I femminicidi sono la forma, senza dubbio la più estrema, di violenza patriarcale con la quale gli uomini vidimano il loro possesso sui corpi e sulla vita delle donne. Oggi, sempre di più le donne stanno denunciando le violenze che subiscono quotidianamente e, allo stesso tempo, stanno aiutando a demolire quelle istituzioni patriarcali che fino a non molto tempo fa consideravano le violenze domestiche “normali” o “naturali”.
Da qualche tempo sono stati compiuti progressi nell’identificazione dei diversi modi in cui il machismo si esprime, iniziando ad essere socialmente condannato, ma molto si deve ancora fare. Si fatica ancora molto, e si parla molto poco dei crimini passionali. Quando lo si fa, c’è sempre il classico giornalista reazionario di turno che indica nella solita “mela marcia” il problema, glissando sul sistema di una società iniqua e patriarcale. Solo alzando la testa e lottando è stato possibile che questi crimini d’odio venissero catalogati penalmente come femminicidi. Ma la stigmatizzazione del femminicidio, la persecuzione e la repressione della collettività che lotta contro la violenza di genere sono il pane quotidiano nel nostro paese, e i crimini d’odio sono l’ultimo anello di questa lunga catena fatta di violenza. Se da parte del movimento femminista una delle richieste centrali dev’essere quella di denunciare i crimini d’odio e la persecuzione reazionaria della cmunità LGBTQIA+ (lesbiche, gay, trans e identità non binarie), dall’altra parte dovremmo al tempo stesso continuare la lotta per la quota di lavoro trans e l’accesso a cure, sanità e istruzione senza alcuna discriminazione per garantire una migliore qualità della vita. La violenza di genere ha iniziato ad essere visibile e denunciata in tutte le sue forme: fisica, psicologica, simbolica, economica e sessuale. Di fronte a ciò, i governi sono responsabili della situazione delle donne perché non fanno nulla per invertire le cifre dei femminicidi e, sebbene si affrettino a sciorinare dati falsi, come fanno i politici di Fratelli d’Italia, non sono capaci di sviluppare alcuna vera politica per l’attenzione e la prevenzione della violenza di genere, pena la perdita del proprio trogloditismo politico medioevale, profondamente ancorato all’istituzione clero e alla sua monarchia assoluta: il Vaticano.
Emblematico, tra i tanti, il caso della giornalista Cecilia Sala, agli arrestati e in isolamento da una settimana, dissidente nello Stato teocratico iraniano.
L’esercizio che tutti dovremmo fare è quello di saper ascoltare. L’attitudine all’ascolto, all’empatia e al rispetto sono strumenti non secondari, come incentivare un clima di accoglienza e lottare contro ogni discriminazione ed esclusione – senza inclusione si creano relazioni disfunzionali che favoriscono i rapporti di dominio sull’altro. Essere inclusivi, ovunque, è un primo step per acquisire coscienza e formazione e spogliarsi di quelle sovrastrutture cattoliche e machiste presenti (non poco) anche nella sinistra.
Il tema del linguaggio inclusivo è oggetto di dibattito nell’estrema sinistra, un problema che noi non vediamo e ci stupiamo quando esso viene sollevato, perché non ne vediamo il senso e l’utilità della critica. I marxisti sono forse dei puristi della lingua? Sappiamo bene che il metodo di lotta di classe, che vede nella classe operaia la sua centralità, non può ridurre una specifica forma di sfruttamento ad un mero dibattito linguistico.
Naturalmente la storia è ricca di modifiche linguistiche, anche nel recente passato, di varia struttura. Ci viene in mente la “Riforma ortografica del tedesco del 1996”, nata con l’obiettivo di rendere la lingua sassone usata in Germania, Austria, Svizzera e Liechtenstein, oppure la modifica della lingua francese tra aggettivi e sostantivi in caso di generi diversi, nel 1651.
Dunque se parliamo di forme inclusive come la “schwa”, queste non sono mai state immesse dall’alto, ma sono l’esatto opposto: nascono dalle lotte dei movimenti LGBTQIA+ e transfemministi, in particolare nell’ultimo decennio. Sono per questo funzionali e portatori di una forma di oppressione, quindi dialettici e progressisti. Sarebbe un grave errore se i marxisti rivoluzionari si avvitassero in quisquiglie di purezze perdendo il punto centrale della schwa: la sua inclusione all’interno della lotta di classe.
La divulgazione del termine “femminicidio” non ha eliminato la violenza contro le donne, ma ci sta aiutando ad aumentare il livello di coscienza sul fenomeno.
E questo non è semplicemente un problema dell’Accademia della Crusca, altrimenti sarebbe di dominio pubblico la parola “maschicidio”. La capacità dei marxisti rivoluzionari è proprio quella di essere legati al metodo, e non alle forme, del marxismo classico.
U.P. del Movimento per la Lega Marxista Rivoluzionaria