Interventi Politica Politica Internazionale

Esplode la rabbia popolare in Nepal

Pubbliciamo un articolo di Miguel Angel Hernández, dirigente del PSL del Venezuela e della UIT-CI:

Lunedì 8 settembre sono scoppiate proteste in Nepal contro la corruzione, a seguito del provvedimento di blocco di diversi social network da parte del governo. Le proteste, iniziate in modo pacifico con una grande mobilitazione davanti al parlamento, sono diventate violente dopo che le forze di polizia hanno represso brutalmente le manifestazioni, causando fino ad ora 22 morti e oltre 100 feriti, molti dei quali da arma da fuoco.

Il Nepal è un paese di 30 milioni e mezzo di abitanti situato nell’Asia meridionale, confinante con l’India e la Cina, a maggioranza indù e buddista. Circondato dalla catena montuosa dell’Himalaya, il cosiddetto “tetto del mondo”, poiché ospita alcune delle vette più alte del mondo, tra cui il Monte Everest.

Martedì scorso, il primo ministro Khadga Prasad Oli ha rassegnato le dimissioni a seguito delle massicce proteste scoppiate a Kathmandu, capitale del Paese, e che si sono estese a città come Pokhara e Itahari. Le dimissioni del primo ministro sono state seguite da quelle del ministro dell’interno, Ramesh Lekhak, che si è dimesso durante una riunione di gabinetto.

In Nepal c’è un governo capitalista di conciliazione di classe. Il Paese è governato da una coalizione di partiti borghesi liberali insieme al Partito Comunista Nepalese (PCN, Marxista-Leninista Unificato), di tendenza maoista. Il primo ministro dimissionario è membro del PCN.

Il Nepal è stato immerso in una lunga e sanguinosa guerra civile contro la monarchia che si è protratta dal 1996 al 2006. Quell’anno è stato firmato un accordo tra il governo provvisorio dell’Alleanza dei Sette Partiti, una coalizione di partiti borghesi liberali, e il Partito Comunista Nepalese (PCN). Nel 2008 si è tenuta un’Assemblea costituente che ha abolito la monarchia e istituito una repubblica democratica parlamentare. Si tratta di un governo di conciliazione di classe a cui partecipa il Partito Comunista insieme ai partiti padronali, il che genera confusione sul suo vero carattere capitalista. È qualcosa di simile a quanto accade con regimi come quello del Venezuela o del Nicaragua, che si autodefiniscono “socialisti” o “di sinistra”, quando in realtà applicano duri aggiustamenti di natura capitalista e governano in accordo con imprese private e transnazionali.

I principali partner commerciali del Nepal sono India, Cina e Stati Uniti. Negli ultimi anni gli investimenti stranieri nel Paese sono aumentati nell’ quadro di un accordo firmato con il Fondo Monetario Internazionale nel 2022, rinnovato quest’anno, che ha generato un alto tasso di disoccupazione, una delle ragioni fondamentali del malcontento sociale in Nepal e dello scoppio delle recenti proteste. Tra le principali multinazionali presenti in Nepal figurano Unilever, Coca Cola, Dabur, azienda indiana di beni di consumo, in particolare nel settore sanitario, Suzuki, Honda, Hyundai, Verisk Nepal, azienda statunitense di software, Cotiviti Nepal, altra azienda statunitense anch’essa di software, Fusemachines, statunitense, specializzata in Intelligenza Artificiale, e molte altre.

I social media e la rabbia popolare

Come abbiamo detto prima, la scintilla che ha innescato la rivolta popolare è stata il blocco, lo scorso 4 settembre, di 26 social media, tra cui YouTube, X, Facebook, Instagram e WhatsApp, con la motivazione che non avevano rispettato il termine per la registrazione presso gli organismi governativi competenti. Questa misura è stata adottata contro l’uso improprio delle piattaforme, attraverso le quali, presumibilmente, “alcuni utenti diffondevano odio e voci, commettevano reati informatici e disturbavano l’armonia sociale”.

Il divieto dei social media è stato interpretato dai settori popolari, e in particolare dai giovani, come un tentativo di censura e di contenere le critiche sul nepotismo e l’ostentazione dei vertici del regime e dei loro figli. Migliaia di manifestanti hanno fatto irruzione nella sede del parlamento sfidando il coprifuoco dichiarato dal governo, appiccando poi il fuoco e incendiando persino un’ambulanza e scontrandosi con la polizia.

La rabbia popolare accumulata in anni di promesse non mantenute, frustrazione per i salari miseri, la disoccupazione e la corruzione dilagante, è esplosa con la sospensione dei social network. I manifestanti hanno attaccato e incendiato le case di alcuni funzionari percepiti come corrotti. Rajyalaxmi Chitrakar, moglie dell’ex primo ministro Jhalanath Khanal, è morta dopo che la sua residenza è stata incendiata. Il ministro dell’Economia è stato gettato nudo in un fiume e picchiato dai manifestanti, anche altri funzionari sono stati picchiati durante le proteste. È stata incendiata anche la sede di un mezzo di comunicazione privato, il Kantipur Media Group, il più grande conglomerato mediatico del Nepal, che comprende quotidiani in nepalese e inglese e canali televisivi.

Povertà, corruzione e disuguaglianza: l’origine delle proteste

L’origine delle proteste va ricercata nella tremenda povertà che affligge la popolazione lavoratrice del Nepal, in netto contrasto con il lusso e lo sfarzo dei leader politici e delle loro famiglie.

La maggior parte dei giovani nepalesi si sente frustrata e senza futuro, oppressa dalla disuguaglianza e dalla disoccupazione. Secondo la Banca Mondiale, lo scorso anno il tasso di disoccupazione giovanile in Nepal era del 20%. Il reddito pro-capite è di circa 1.300 dollari all’anno; il 7,5% della popolazione lavora all’estero e le rimesse della diaspora sostengono i consumi interni.

Nel frattempo, i leader dei tre principali partiti, il Congresso nepalese, il Partito comunista nepalese (CPN-UML) e il Partito comunista nepalese ( Centro maoista), sono stati coinvolti in scandali che vanno dalla cosiddetta truffa dei rifugiati butanesi, a casi di appropriazione indebita di terreni, contrabbando di oro, corruzione nel quadro della ricostruzione dopo il terremoto del 2015 e, durante la pandemia, nella gestione dei vaccini contro il Covid 19. Più recentemente, il caso di una rete che ingannava i cittadini con viaggi in Spagna con il falso pretesto di partecipare a una conferenza delle Nazioni Unite.

La generazione Z scende in piazza

Nelle settimane precedenti al divieto dei social media, gruppi di giovani hanno sviluppato una campagna sui social media, in particolare attraverso video su TikTok, mettendo in evidenza la vita lussuosa dei figli dei politici, che senza vergogna ostentano pubblicamente le loro ville, le loro auto di lusso, i viaggi all’estero e gli studi nelle università europee. Tutto ciò contrasta con la povertà, la disoccupazione e la mancanza di opportunità per milioni di giovani delle classi popolari.

Le proteste sono state guidate da giovani che si identificano come la “generazione Z”, nati tra il 1997 e il 2012. La campagna promossa dai social network e l’appello alle mobilitazioni avevano due hashtag che la caratterizzavano: “Nepo Baby” e “Nepo Kids”. “Nepo” è l’abbreviazione di nepotismo. Questi hashtag hanno guadagnato grande popolarità e sono diventati virali sui social network, mettendo a nudo attraverso video e foto lo stile di vita lussuoso degli alti funzionari del governo, dei loro familiari e dei loro figli, che hanno approfittato delle cariche dei loro padri per arricchirsi.

Noi dell’Unità Internazionale dei Lavoratori e delle Lavoratrici della Quarta Internazionale (UIT-CI) sosteniamo incondizionatamente le mobilitazioni in Nepal e siamo solidali con la lotta dei giovani e dei lavoratori nepalesi.

Le rivolte sociali in Nepal, un paese di cui si parla poco, sono un’ulteriore espressione della grande crisi che sta attraversando il sistema capitalista nella sua fase di decadenza imperialista. Un sistema assurdo e iniquo che sottopone i popoli alla miseria e alla fame, mentre politici e imprenditori godono di ogni tipo di privilegio, protetti dal controllo dello Stato e dalle risorse naturali dei paesi.

La corruzione, l’ostentazione e la povertà di milioni di persone sono il terreno fertile per lo scoppio di ribellioni popolari che mettono in scacco i governi capitalisti.

Lascia un commento