Nel 1921, a Livorno, vedeva la luce il Partito Comunista d’Italia, sezione italiana dell’Internazionale Comunista. Dopo poco più di un anno, nel 1922, in Italia presero il potere i criminali fascisti. Qualche anno dopo, nel 1924, lo stesso giorno (21 gennaio) moriva Lenin e con esso s’avviava un processo degenerativo ed involutivo del movimento comunista guidato da Stalin.
I media hanno narrato, in particolar modo negli ultimi anni, che la scissione di Livorno fu una concausa per l’ascesa del fascismo. La verità è un’altra. I riformisti, dopo aver tradito la classe operaia all’inizio del primo conflitto mondiale subordinandosi alla borghesia, si ripeterono anche durante il biennio rosso tradendo il movimento operaio e le sue aspettative.
Il PCd’I portava in sé, sin dalla sua nascita, un prisma di posizioni politiche molto ampio. In primis vi erano – e avevano un grande seguito – le posizioni di Bordiga, che nelle sue intenzioni voleva attrezzare il partito al processo rivoluzionario in risposta alle capitolazioni dei riformisti, spingendo l’organizzazione a posizioni genuine ma settarie. Gramsci (uomo di Zinov’ev), sostenuto dall’internazionale, nei primi anni ’20 avviò una critica alla corrente di Bordiga sino a strappare la maggioranza nel Partito, sviluppando le sue riflessioni sull’esigenza di rilanciare una risposta chiara e di massa al fascismo, il “fronte unico”, come scrisse in una lettera a Zinov’ev datata luglio 1925: «ll Partito Massimalista attraversa una crisi abbastanza grave: il nostro CC ha fatto a questo Partito, e insieme al Partito Repubblicano, al Partito riformista e al Partito Sardo una proposta di fronte unico sulla base: “abbasso la monarchia fascista! La terra ai contadini, il controllo sulla produzione agli operai per spezzare la schiena agli agrari e ai capitalisti che sostengono il fascismo!”»
L’avvento di Stalin alla guida del Partito Bolscevico portò alla dissoluzione del leninismo. Lenin, prima di morire, aveva iniziato una battaglia contro Stalin, proseguita da Trotsky con l’Opposizione di Sinistra prima e l’Opposizione unificata poi.
Successivamente, il PCd’I e la sua evoluzione – il PCI – fecero propria la logica burocratica dell’Urss, in Italia opportunamente instillata da Togliatti. Si passò dunque dalla rimozione delle Tesi di Lione e del fronte unico, scritte da Gramsci, alla svolta di Salerno, ovvero la decisione di entrare nel governo Badoglio. Questa scelta non fu fatta per promuovere un necessario cambiamento, ma per costruire un governo con le forze colluse col fascismo – come Badoglio -, congelando la spinta rivoluzionaria della classe operaia.
Tutte le scelte nefaste operate dal PCUS incisero nella sua declinazione italiana gestita da Togliatti, come l’Amnistia ai fascisti, i fatti dell’Ungheria o della Primavera di Praga. Gli anni ‘70 videro il PCI avulso dal sostegno dei movimenti di massa. Berlinguer e il suo apparato si prodigarono per la scellerata politica del compromesso storico, il “partito di lotta e di governo”. Berlinguer perseguì la linea stalinista già vissuta negli anni ’40, quella di correre in soccorso alla borghesia, portando in dote il disarmo politico della classe operaia. Il partito di Togliatti, Longo e Berlinguer pagò così decenni di subordinazione politica alla ricerca ansiosa del riconoscimento istituzionale della borghesia. Quello che è accaduto con la svolta della Bolognina è stato solo l’ennesimo capitolo di un processo politico inevitabile, susseguito dal PRC, PdCI , PD e codazzo…
La critica al sistema stalinista fatta da Occhetto e D’Alema sarebbe dovuta avvenire da sinistra e non da destra – come in realtà avvenne -, attaccando l’apparato burocratico dello stato sovietico e di un’Internazionale che confondeva i suoi privilegi con quelli della classe operaia. Si sarebbe dovuto riprendere in mano Trotsky e la “Rivoluzione permanente“, l’unico strumento e metodo vincente per un processo rivoluzionario.